L'audience del terrore

Come la Tv trasforma la realtà in un'opera drammatica

Lorenzo Orlandini Photographer
Lorenzo Orlandini Photographer

A più di un mese di distanza dai tragici avvenimenti che hanno colpito l'Emilia, i mass media cominciano e mettere in secondo piano gli eventi riguardanti quei giorni di terrore. In un solo mese, il tempo dedicato alle notizie sul terremoto e sulle vittime che ha provocato, va scemando fino quasi a scomparire dai palinsesti televisivi. Eppure, nei primi giorni, subito dopo le scosse distruttive,  l'attenzione verso coloro che erano stati colpiti in prima persona dal sisma era quasi morbosa.


29 maggio 2012: è il giorno dell'ultima forte scossa. Sale il numero delle vittime, insieme a quello degli sfollati e dei feriti. I telegiornali e i programmi serali dedicano edizioni speciali con inviati e servizi in diretta dai paesi più colpiti. "Matrix" va in onda in diretta dalla tendopoli di Medolla.

La puntata comincia con le immagini più significative di quegli attimi di sgomento. Il programma prosegue con l'intervista ad un operaio che, insieme alla sua famiglia, ha dovuto trasferirsi nella tendopoli: la sua abitazione è “interessata da crolli”, come lui ripete più volte. In uno stato evidente di agitazione racconta la sua storia, sforzandosi di utilizzare più termini tecnici possibili e conclude chiedendo aiuto ai telespettatori che lo stanno guardando: “abbiamo bisogno di tutti. Autorità e non.


"Porta a Porta" affronta la situazione in altra maniera: anche qui si susseguono le immagini degli edifici sventrati, delle fabbriche crollate; non ci sono immagini in diretta dei crolli, ma si raccolgono le testimonianze “a caldo” dei sopravvissuti: “Ci avete considerati terremotati di serie B. ecco quello che è successo” si sfoga un operaio che ha appena perso due colleghi. “La protezione civile ha detto che potevamo tornare a lavorare” spiega un altro. Inevitabile l'accostamento con L'Aquila: la trasmissione prosegue con le immagini del terremoto di tre anni prima: la città devastata, le bare, i resti di ciò che, a distanza di anni, non si è ancora riuscito a ricostruire.


Già il giorno dopo, entrambi i programmi cambiano tono, concentrandosi l'uno sui “danni psicologici”, l'altro su quelli economici. "Matrix" continua sulla linea solidale, altruista, umana: intervista gli psicologi incaricati dalla protezione civile di sostenere gli sfollati nelle tendopoli. Viene chiesto loro quali sono i “casi” più ricorrenti per i quali è richiesta la loro collaborazione: crisi di panico, attacchi d'ansia, sono i più frequenti, ma soprattutto si è notato un cambio di atteggiamento. Prima del 29 maggio infatti si era instaurato un clima debole di speranza, ma da quel giorno, negli atteggiamenti degli sfollati, sono stati riscontrati dai medici solo rassegnazione e rabbia.


Questi sono solo alcuni esempi delle rappresentazioni che la televisione ha dato di ciò che è accaduto. È facile per tutti ormai osservare come certi avvenimenti diventino veri a propri “casi limite” per i mass media. È come se la professione del giornalista sia definita da un carattere duplice: da una parte occorre empatia verso il pubblico, si sa che fa più ascolto ciò che coinvolge emotivamente lo spettatore, dunque bisogna mostrare il dolore, per quanto forte esso sia, il pianto, per quanto disperato possa essere, la disperazione, nonostante l'insieme possa apparire penoso; dall'altra parte deve però essere cinico, gelido, sprezzante di fronte a tutto pur di raccontare ciò che il suo pubblico vuole sentire, nel modo in cui lo vuole sentire.

 

Non importa quanto possa essere desolante, raccontare storie significa suscitare curiosità, interesse, scalpore. Gli eventi, che ci coinvolgano o no, arrivano a noi nei loro toni più cupi; la loro rappresentazione è ciò di cui veniamo a conoscenza e questo basta per giudicare “vere” quelle storie. Possiamo essere in grado di riconoscere quelle riproduzioni come corrispondenti alla realtà, oppure possiamo ritenere in qualche modo eccessivo ciò che ci viene presentato, ma in ogni caso staremo lì, a guardare quelle immagini, ad ascoltare quelle urla, ad assistere a quei pianti disperati.

 

Siamo talmente abituati ad avere a che fare con i ritratti che la televisione fa e ci vende, che non riusciamo più a distogliere lo sguardo da tutto ciò che essa ci propone. Non siamo più in grado di distinguere i reality dalla realtà, non riusciamo ad evitare di “spiare” il dolore vero di chi ha perso tutto; non viene posto alcun limite, etico o morale, alle trasmissioni televisive. Rispettare il dolore e la dignità è irrilevante, ciò che importa è fare ascolti.


I dubbi sono molti, non solo sull'atteggiamento dei giornalisti, sempre ispirati dal loro pubblico, è giusto ricordarlo; la questione che più ci preme, in questo caso specifico, è capire quali sono le sensazioni di chi ascolta non uno dei tanti avvenimenti più o meno tragici che raccontano i telegiornali, ma la propria storia. Cosa si prova a stare dentro la notizia? Che effetto fa sentire raccontare le proprie vicende personali dai mass media?

 

Per soddisfare questi dubbi abbiamo intervistato Andrea, diciannovenne che studia a Bologna originario di L'Aquila. Riguardo a come sono state rappresentate le due situazioni dalla televisione, Andrea si sofferma più sull'immagine che è stata data dei politici: "il governo che tre anni fa ha costruito le case per gli aquilani che avevano perso le loro abitazioni, lo ha fatto solo per interesse, per ricevere il consenso non soltanto degli sfollati, ma di tutti gli italiani." Peccato che non sia stato fatto altro.

 

A distanza di tre anni la costruzione della città è ancora ferma, l'attuale governo le sta mandando avanti, senza farsi troppa pubblicità. L'approccio giusto, secondo lo studente, sarebbe quello di far vedere quello che è successo senza dover obbligatoriamente intervistare gente disperata, magari facendo domande del tipo “come ti senti?” a persona che hanno perso tutto ciò che avevano. Mostrare le città ridotte in cumuli di macerie, le fabbriche distrutte, i palazzi sventrati può essere un buon modo per agevolare la raccolta fondi promossa dalle associazioni che portano aiuti umanitari nelle zone colpite.

 

L'argomento sul quale Andrea muove la sua critica più severa è quello dei cosiddetti “esperti. I telegiornali tendono a intervistare gli esperti di sismologia come se fossero dei luminari capaci di prevedere eventuali sismi. Il terremoto non è da considerare come un temporale: non è così facile riuscire a prevederlo. È importante mostrare dove è arrivata la ricerca, spiegare la natura geologica dei terremoti, ma anche questo può servire ben poco a chi, impotente innanzi al “movimento tellurico”, ha perso i propri cari.

 


Morena A.